Recentemente in un famoso locale di Riccione è stata inscenata una performance ispirata a “Imponderabilia” di Marina Abramovic. La performance storica, realizzata nel 1977 a Bologna, consisteva nel far attraversare al pubblico una stretta porta ai cui lati erano in piedi un uomo e una donna nudi. Questo costringeva a stringersi a loro, rivolgendo il proprio corpo o all’uno o all’altro, venendo posti di fronte a una bruciante scelta di campo, a una radicale esperienza di contatto con l’altro.
Nel riproporla nel 2014, si è verificato un cortocircuito. I carabinieri l’hanno infatti sospesa per atti osceni, portando attori e proprietario del locale in caserma. Il proprietario ha gridato alla censura.
Nel vasto coro delle opinioni sostanzialmente due: chi difende l’arte in tutte le sue forme, e chi invece propende a dare ragione ai carabinieri («vergogna», «depravati», «andate a lavorare»).
Purtroppo non ha ragione nessuno dei due. Io credo che la riproposizione oggi, di una performance realizzata in un momento di superamento di inibizioni e pregiudizi, in un paese storicamente arretrato dal punto di vista morale (sì parlo dell’Italia) sia completamente insensata. Riproporla per di più in un luogo che è nell’immaginario collettivo uno dei simboli della totale perdita di inibizione sessuale, è quasi una presa in giro della carica (all’epoca) innovativa di questo tipo di utilizzo del nudo in arte.
Ma capiamoci, è ridicolo sia il fatto che la performance sia stata censurata (forse i carabinieri non sanno di Youporn? O dei pompini nei bagni delle scuole medie?), sia che la difesa adottata dal proprietario del locale fosse incentrata sul valore artistico intrinseco dell’operazione. Sappiamo tutti benissimo che quella particolare performance è stata scelta non certo perché il nudo rappresenta, per quel pubblico, in quel contesto, un passaggio verso la comprensione della spiritualità del corpo (per dir così, per eufemismi). Soprattutto non è stata scelta perché artisticamente valida. Perché allora non una mostra di Braque o di Giotto in discoteca? Eppure anche loro sono stati artisticamente rivoluzionari nella loro epoca. Lo so ho un po’ il demone dello storicismo, ma se sono passati quasi quarant’anni qualcosa vorrà dire. Nel 1977 si usava lo “scandalo” per far capire che non c’era niente di scandaloso. Oggi si ripropone l’ideologica disponibilità del corpo nudo. Volendo allargare un po’ il discorso, infatti, ci sarebbe da tener conto del fatto che le inibizioni cui siamo soggetti oggi sono piuttosto sociali che sessuali, e che l’uso gratuito e diffuso del nudo esposto in maniera oscena sia uno degli strumenti con cui le inibizioni sociali vengono riprodotte: attraverso il ricatto della libertà sessuale, si cede su tutti gli altri fronti (citando una recente parodia del manifesto di un film non eccezionale: “La grande bellezza è in un paio di tette”).
Per concludere, fare di quella performance, che è certamente un’opera d’arte, uno strumento di promozione della presunta sensibilità artistica di una discoteca è a dir poco pacchiano. Che si finisca poi per delegare la discussione sullo statuto delle opere d’arte ai giornalisti di cronaca, ai carabinieri e ai proprietari dei locali è anche un po’ disperante.
Jacopo Galavotti