Seconda puntata.
Torniamo al bar e vediamo di ripercorrere la vita del romagnolo doc, nei vari periodi dell’anno.
L’inverno era il periodo dei tornei di maraffa dove i premi erano costituiti da un prosciutto, da mezzo maiale o da quattro capponi. Tutti premi in natura, comunque. C’era una piccola parentesi alla maraffa nel periodo di Natale quando nel bar si faceva la tombola, unico momento in cui anche le donne e i bambini erano ammessi. Era il modo per il barista di rimpinguare i guadagni perché quanto veniva guadagnato da coloro che vincevano doveva essere speso all’interno del bar, che in quel periodo si riempiva di panettoni, bottiglie di spumante, cesti natalizi tanto da essere più fornito di un supermercato.
La primavera era il periodo dello sport. La podistica organizzata dal gruppo sportivo del luogo non poteva essere disertata e, anche se non allenati, la facevano tutti. Con tenute inverosimili e scarpe non adatte (nessuno aveva in casa sua un paio di scarpe da running, si usavano quelle da lavoro antinfortunistiche magari, con la punta di acciaio) si riconoscevano benissimo nel gruppo i corridori locali da quelli professionisti venuti alla podistica da altri luoghi per vincere il monte premi, che anche in questo caso era composto da beni in natura.
La bicicletta invece diventava l’uscita settimanale per antonomasia: ogni domenica mattina presto ci si trovava al bar, si prendeva un caffè e si partiva alla volta delle colline romagnole. Più attrezzati, perché il bar forniva loro la divisa, i ciclisti si inoltravano verso imprese epiche con biciclette del tutto improbabili. Chi era messo meglio aveva la bicicletta comprata già da corsa, ma quasi tutti avevano biciclette da passeggio, acquistate dal ferro vecchio e trasformate in bici da corsa negli anni con non pochi sacrifici. Si iniziava col togliere i parafanghi, con il sostituire il manubrio, con il cambiare i pedali per metterci quelli con le cinghie per tenere ben fermo il piede. Questa ultima modifica obbligava il ciclista ad un’altra spesa: quella dello scarpino che era solo nero, con i lacci e il cuoio bucarellato per lasciare respirare il piede. Nelle versioni più avveniristiche alla bicicletta veniva sostituito anche il cambio introducendo due moltipliche anteriori e cinque cambi posteriori per avere in totale la bellezza di dieci rapporti diversi. Questo però era un optional solo per pochi: i più avevano tre cambi dietro senza nessuna moltiplica anteriore, ma riuscivano in delle imprese che avevano dell’incredibile. C’era chi in una giornata con una bicicletta di questo tipo era andato dal mare ai Mandrioli e ritorno senza mai fermarsi, chi al Muraglione, chi in Carpegna e così via. Senza niente da mangiare e senza borraccia si partiva e si andava, senza paura di una crisi di fame o di non farcela. Insomma c’era un sacco di campioni inespressi ai quali il duro lavoro aveva impedito una carriera indiscussa tra i ciclisti professionisti. Si narra che uno di questi campioni incompresi una volta si trovò a pedalare tranquillo con la sua bicicletta stile catenaccio (questo era il nome dato a mezzi di quel tipo) nella strada dove doveva passare il giro d’Italia. Superato dal gruppo questi non se la poteva prendere e così iniziò a pedalare più forte fino a quando non riuscì a risuperare tutto il gruppo e a staccarlo a sua volta tanto che creò un tale scompiglio presso i corridori professionisti che non riuscivano a raggiungerlo che l’organizzazione si trovò costretta a fermarlo. Per una ventina di km però c’era stato un uomo solo, sconosciuto, al comando. I ciclisti più scarsi invece, detti in gergo garnadoni, si rifacevano alle mangiate quando, una volta serviti, invece del consueto Buon appetito partiva da loro la classica frase: alè burdel, a que u nun staca nisun.
Poi c’era la partita di calcio scapoli contro ammogliati. Tra questi c’erano pochi giocatori abituali e quasi tutti improvvisati. C’erano poi quelli che per le mogli erano giocatori, ma in realtà invece di andare agli allenamenti andavano al bar. La difficoltà di quelli che usavano il calcio come copertura era quella di trovare tutte le sere una pozzanghera dove sporcare e bagnare i panni per non destare sospetti nella propria moglie. Tornando alla partita scapoli-ammogliati, ovviamente le divise venivano offerte dal bar, ma erano quelle della partita precedente che nessuno aveva mai lavato così uno poteva sentire tutto il sudore di quello che l’aveva indossata in precedenza impregnata ben bene da giorni e giorni di presenza in magazzino. Le partite erano inguardabili, non c’era centrocampo ma solo attacco e difesa e cioè il difensore recuperava palla e lanciava avanti per l’attaccante che, o andava in goal, o perdeva palla a favore dell’altro difensore che recuperava palla e rilanciava a sua volta in avanti. Erano comunque due ore che trascorrevano via veloci e venivano seguite da una doccia e dalla classica mangiata tipica romagnola fatta di tris di primi e carnaccia. E da bere solo Sangiovese, altro che Gatorade.
Arrivava l’estate e il bar si svuotava, cioè anche qui, come i falsi giocatori di calcio, l’uomo era ufficialmente al bar, ma in realtà lo trovavi giù al mare. Per i più giovani c’era il luna park dove pavoneggiare la propria mascolinità alle fanciulle di turno. L’autoscontro era terreno di imbrocco per eccellenza: il giovane romagnolo doc non stava dentro all’abitacolo ma seduto sullo schienale con una mano sul volante e l’altra sul tubo che serviva al veicolo per prendere corrente. Avvistando una macchina con due ragazze ci si avvicinava e nel momento opportuno si andava allo scontro il quale veniva enfatizzato dal movimento pelvico (sempre quello) che rendeva lo schianto ancora più fragoroso: più si sbatteva forte e più maschi si era. Poi c’erano il pungiball e il calci in culo: entrambi servivano a dimostrare la virilità del ragazzo. Il calci in culo poteva essere utilizzato con l’amico di turno, organizzandosi per prendere la coda del coyote appesa oppure per cercare di farla prendere alla ragazza del seggiolino davanti. Se ci riusciva, era un buon passo per concludere bene la serata. Ma il gioco in cui il ragazzo romagnolo doc dava il meglio di sé era il tagadà: già era un’impresa starci seduto per più di un giro ma la sfida più grande era quella di riuscire a domarlo standoci in piedi. Si vedevano questi ragazzi che alzarsi e stagliarsi imponenti con l’espressione dell’imperatore romano in parata sui fori imperiali. E chi resisteva fino in fondo era il predestinato al quale nessuna fanciulla poteva resistere.
Il romagnolo doc adulto invece puntava alla balera. Non prima, però, di essere passato dal bar per raccontare le avventure della sera prima a tutti gli amici. E poi ufficialmente per la moglie era al bar, per cui dal bar era bene che ci passasse così nessuno avrebbe potuto dire di non averlo visto. Statisticamente la percentuale di conquiste era ad un livello talmente alto da renderlo impossibile ma nessuno osava mettere in dubbio la parola dell’altro perché la sera dopo poteva toccare a lui far credere agli altri le proprie avventure. Il maschio d’estate si trasformava: la camicia squadrettata di flanella che si indossava in inverno veniva sostituita con quella nera, lasciata abbondantemente aperta con l’ultimo bottone abbottonato all’ombelico lasciando ben evidente il catenone d’oro che penzolava al collo. Il pantalone da caccia dell’inverno veniva sostituito con quello bianco, attillatissimo in alto per evidenziare il pacco (come optional si utilizzava un po’ di carta igienica accartocciata che opportunamente sistemata dava la consistenza giusta al tutto) e a zampa di elefante in basso. E come scarpa non poteva mancare lo stivaletto nero a punta con la cerniera di fianco e il tacco interno per sembrare più alti. Per quelli un po’ calvi, e a quell’età di gente con tanti capelli ce n’era poca, si usava il riportone. Quando cioè tutti gli sforzi fatti durante l’inverno per far crescere due peli sopra la testa venivano finalmente ricompensati e con un po’ di brillantina e pazienza si riusciva a ricoprire quasi tutto il cuoio capelluto ormai glabro. Per chi non riusciva nemmeno a coprire con il riportone c’era sempre il buon vecchio parrucchino. In ogni caso comunque il capello non poteva essere bianco, ma nemmeno brizzolato per cui ci si avventurava in assurde tinte castane che con la luce del sole sembravano di un improbabile color carota.
(continua nel prossimo numero)
Lorenzo Sforzini