Riflessioni a sangue freddo e in ragionevole ritardo
Partiamo da un’esperienza soggettiva. Appena uscito dal cinema in cui avevo visto Django Unchained mi sentivo davvero esaltato e appagato. Perché? Ragioniamoci un po’ su.
Tarantino ripropone, giocoso ma serio come sanno essere i bambini, stereotipi tipici della rappresentazione del western (la gente che sputazza, le pose degli attori, le situazioni tipiche: sparatorie e lotte), oltre a personaggi iconici come la figura del cacciatore di taglie, che viene però ribaltata nel personaggio del logorroico “dentista” tedesco con la minipistola, che usa insieme alla parola per vincere i suoi duelli. Ma le capacità del cacciatore di taglie europeo non gli permettono di uscire dalla quête (parola legata ai poemi cavallereschi e che ha legami con la quest dei videogame, la ricerca, la missione; termine scelto perché sottolinea il carattere epico e ludico del film) senza farsi ammazzare, pur di togliersi la soddisfazione di uccidere il “cattivo” schiavista bianco . Nel momento più drammatico di tutti avviene il passaggio di testimone, dal bianco al nero, dal vecchio al giovane. Tocca a Django risolvere la situazione incasinatissima in cui l’ha messo il suo mentore e dispensare una pirotecnica giustizia.
Questo racconta qualcosina della pellicola, ma non risponde alla domanda.
Si potrebbe cercare di spiegare la esaltazione provocata da questo film tirando in ballo l’immedesimazione dello spettatore con i personaggi sullo schermo (banalità, ma anche, in senso lato, argomento di riflessione del filosofo Walter Benjamin). Noi spettatori ci immedesimiamo nella coppia di eroi, che hanno dalla loro il potere dell’intelligenza retorica e della violenza e “partecipiamo” così alla vicenda, immergendoci in essa. È una ovvietà: noi spettatori stiamo dalla parte dei buoni, anzi siamo i buoni, ma in Django Unchained questo fenomeno pare volutamente amplificato fino ad avere un film “immersivo” (altro termine legato al mondo videoludico), in cui il fruitore sente di “partecipare” alla narrazione. La liberazione finale di Django, che viene con la distruzione totale dei “cattivi” ed i titoli di coda, è anche quella dello spettatore da un qualche fardello. Una liberazione che, ricollegandosi alla struttura di base del film (che richiama in maniera esplicita il mito, i poemi cavallereschi, ma anche la tragedia greca classica), fa sospettare che questo appagamento dello spettatore possa essere equiparabile ad una forma di catarsi come quella di cui parlava Aristotele circa le tragedie nella Grecia antica. Dunque Django Unchained come film catartico e in qualche modo “educativo”, come film che mette in scena situazioni etiche elementari e libera dalla tensione accumulata con un finale che è un ritorno all’ordine in cui il bene trionfa sul male.
Ma, tralasciando la tensione dovuta alla trama, cosa è il fardello del quale è liberato lo spettatore? Una ipotesi: sì, questa pellicola è potente, parla allo stomaco e non si può che ammirare l’amore di Tarantino per il cinema. Questo film esalta perché gli elementi narrativi sono organizzati in maniera riconoscibile, egregia e ludica; e appaga perché tali elementi sono immersi in un viluppo di citazioni, rimandi, ammiccamenti, omaggi a quella cultura mediatica pop nella quale un po’ tutti gli spettatori sono immersi. Tali caratteristiche definiscono un prodotto con un un piede nella “autorialità” più stilisticamente consapevole ed uno nell’entertainment più caciarone, cercando una sorta di equilibrio. Una scelta rischiosa. Il “discorso” (cioè il mythos, il racconto) che il regista fa nel suo film mette in scena temi “pesanti” come la schiavitù e il razzismo, ma a questo si limita, ne fa delle “scene” teatrali, degli sfondi per l’espressione del proprio virtuosismo registico e della propria venerazione. Il “discorso” del film diventa quindi un racconto del cinema di se stesso: Hollywood parla soprattutto di sé. Se voleva parlarci della schiavitù, Tarantino riesce alla fine solo a dirci che ama un certo tipo di cinema, ed il fardello da cui lo spettatore è liberato è proprio il presunto “pesante” contenuto del film, la schiavitù, il razzismo la Storia e i suoi dolorosi e prosaici conflitti. Una “rimozione” in piena regola.
In conclusione Django Unchained è un bel film, ma non un buon film, perché non trova un equilibrio tra diversi modi di intendere il cinema e rinuncia a sviluppare un discorso che aveva enormi potenzialità.
Matteo Cattelan